martedì 31 gennaio 2012

Giorni della merla: ciccioli!

Oggi ultimo giorno dei  giorni della merla, fuori sta iniziando a nevicare e il mio pensiero corre a quando si investiva il maiale: come non pensarci, la prima mangiata il fegato con la polenta, poi le braciole che festa che era.  Tutti al lavoro, profumi che si spargevano per il cortile, la gioia di mangiare intorno ad una tavola tutti insieme..che ricordi! Era inevitabile che proponessi la ricetta dei ciccioli, certo in piccole quantità, che feci l'anno scorso. Anzi, mi sa che dovrò rifarli anche a breve. Che buoni. E tutto sommato anche semplici da fare.Diciamo adatti al tempo e poi..fuori a spalare la neve!

Ciccioli secchi

Ingredienti

1kg lardo di maiale
sale

Mettere  in un tegame i pezzi grassi del maiale, con appena un goccio di acqua in modo che la carne non si attacchi prima che incominci a disfarsi il grasso.


farli andare sul fuoco bassissimo finchè non assumono un aspetto colorito e croccante, rimescolando spessissimo.
dopodichè scolarli in un telo, raccogliendo il grasso formato



poi stringere bene (avrei l'attrezzo ma per l'esiguità della quantità di carne non valeva la pena)
mettere i ciccioli in un contenitore e salarli.Ed ecco strutto fresco e ciccioli caldi:-)




lunedì 30 gennaio 2012

Valles/Vals

Nei nostri tre giorni di vacanza, quest'anno abbiamo visitato Valles/Vals . E' un paese molto bello con abitanti molto gentili e disponibili. Devo dire che mi ha lasciato stupita per quanto è fuori, come direbbe una vecchia pubblicità, "dal logorio della vita moderna". In paese mi sono ritrovata un piccolissimo spaccio (30 mq?) che  vendeva qualsiasi cosa, con praticamente niente carne e poco pane, gli abitanti evidentemente sono ancora autonomi per quanto riguarda il cibo e questo è sicuramente caratteristico al giorno d'oggi.
Il paese come tutta la Valle di Valles è a maggioranza linguistica tedesca e si trova a 1.353 mt di altitudine, all'inizio della Val Pusteria. Riparato dai Monti di Fundres, Valles vanta una posizione geografica vantaggiosa al cospetto di montagne imponenti e suggestive
A  1.730 metri ci sono le medievali "Malghe di Fane" ,possibile punto di partenza per molte camminate, tra cui il Picco della Croce e la Cima di Valmala e la Cima della Vista
In mezzo a queste due cime passa il sentiero numero 18 che sale dalla malga Labeseben (a 2.138 m), sale passando per lo splendido lago Selvaggio e poi raggiunge il giogo Rauhtaljoch (a 2.808 m); da qui è possibile completare il giro ridiscendendo al Rifugio Bressanone .
E' stata annessa all'Italia solo alla fine della prima guerra mondiale e l'influenza austriaca è ancora ben visibile nel luogo.
Salendo allo Jochtal si trova un paesaggio splendido, fuori dall'immaginario. Aleggia un'aria di fine anni '70, molto bello. Piste larghe, poco affollamento...da favola!
Posto qualche foto:

la centrale di riscaldamento a legna che riscalda tutto il paese
i gatti delle nevi:-)
bambini che pattinano senza pattini:-)
l'immancabile uova speck e patate
la chiesa parrocchiale è dedicata a Sant'Andrea e risale al 1341
Un evento particolare che si svolge ogni martedì durante la stagione invernale è la “danza dei vampiri”, festa notturna a 2.008 m s.l.m. Le piste sono illuminate per chi sale con gli sci d’alpinismo e la cabinovia è in servizio.
lo Jochtal. Da quest'annole aree sciistiche Jochtal e Gitschberg sono collegate tra di loro tramite una cabinovia con fondo di vetro.
In estate, lo spettacolo molto amato è la transumanza, il ritorno del bestiame a valle, come anche la festa delle malghe e la festa del latte presso la Malga Fane che si svolge nel mese di agosto. Nel mese di aprile, presso la Malga Fane, si svolge una gara di scialpinismo da non perdere. Cosa dire? Sicuramente un posto da visitare!

venerdì 27 gennaio 2012

Canederli

Oggi a 2100 metri ho mangiato i canederli, anzi il canederlo e mi ha fatto venire in mente quelli di Rosetta che pubblicato sul suo blog Il fogolar. Tutto quello che riporto è spudoratamente copiato dal suo blog:-), ma so che a lei non dispiacerà. Se fate un giro sul suo blog troverete diverse versioni di canederli, tutte da provare. Vi consiglio di visitarlo ci sono tante notizie interessantissime!

Da "Il Fogolar"
Narra la storia
Qual è il piatto tirolese più caratteristico?
La maggior parte delle persone direbbe senza dubbio i canederli tirolesi.
C’è da sapere però che cosa ha a che fare una cappella con i canederli?
In realtà moltissimo.La cappella del castello di Hocheppan, vicino a Bolzano, custodisce uno straordinario ciclo di affreschi dipinto intorno all’anno 1180.Un particolare di questi affreschi mostra la vergine partoriente.
La balia é in cucina e controlla la pentola nella quale cuociono 5 canederli.
Altro particolare, con la mano destra ne infilza uno con la forchetta e fa il gesto di assaggiarlo.
Ecco dunque che qui, nel castello di Hocheppan, ci imbattiamo nella prima e più antica rappresentazione dei canederli.
Noi non sappiamo quali ingredienti venivano utilizzati per preparare i canederli a quel tempo.
Oltre ai canederli tirolesi esiste una vera e propria varietá di canederli come per esempio i canederli di pane, i canederli di spinaci, i canederli di grano saraceno, i canederli di fegato, i canederli ai funghi porcini, i canederli di zucca, i canederli di barbabietole rosse ecc.
Si racconta anche un’altra versione sulle origini dei canederli tirolesi … alcuni lanzichenecchi (aiutanti contadini) stavano attraversando il Tirolo ed entrarono in una osteria affamati e stanchi.
Intimarono all’oste di preparare subito qualche cosa da mangiare, altrimenti avrebbero distrutto completamente la locanda.
L’ostessa aveva la dispensa vuota … di necessità virtù, prese le poche cose avanzate, tagliò dello speck, delle salsicce e pane raffermo in piccoli dadi, aggiunse del latte e della farina, impastò e formò delle semplici palle che poi gettò nell’acqua bollente. In poco tempo fu in grado di presentare alla marmaglia affamata questo piatto d’ emergenza. I lanzichenecchi erano entusiasti di quello che avevano mangiato.
E cosi ecco spiegata, secondo la legenda, la nascita dei canederli tirolesi.
La vera nascita di questa preparazione, va ricercata nella grama vita che conducevano le genti di montagna, isolati – poche provviste – povertà, l’economia montana era autarchica e quindi l’ingegno si è aguzzato e ha fatto sì che usassero quelle poche cose che avevano per rendere meno monotono il cibo, dando la forma dei canederli

CANEDERLI della nonna trentina
Ingredienti
Per 4 persone

300 g pane raffermo
½ lt latte intero
3 uova
3 cucchiai di farina
150 g salsiccia saporita o 100 g speck
1 cipolla
1 mazzetto prezzemolo
Sale e pepe
Olio ex v oliva

Tagliare a cubetti il pane e lasciarlo ammorbidire nel latte per un’ora circa.
In una padella rosolare per pochi minuti nell’olio la salsiccia sbriciolata o lo speck tagliato a dadini insieme alla cipolla e al prezzemolo tritati.Amalgamare il pane ammorbidito con le uova, aggiungere la farina il sale, il pepe e e rimescolare.Aggiungere il soffritto di salsiccia cipolla e prezzemolo, impastare e poi lasciar riposare un quarto d’ora circa.Bagnare le mani e con questo impasto preparare delle palle della grandezza di un uovo.
*** Si servono con del buon brodo bollente, cotti per una decina di minuti
*** Cotti in un brodo vegetale (perché si insaporiscano meglio), scolati, messi nei piatti spolverati una generosa presa di grana trentino grattugiato e conditi con burro fuso preparato al momento.
Quando si versa il burro fuso sui canederli, deve fare le bollicine
*** Si possono servire come accompagnamento ad un buon gulasch o ad un normale spezzatino al posto della polenta

Auschwitz giornata della memoria


Riporto quanto pubblicato da Sky.it.
di Denis Avey (con Rob Broomby) 

"Raggiungemmo una piccola stazione. La banchina era molto bassa, e c’era una scaletta per scendere dal treno. Mi portarono dritto a un sentiero di terra battuta, e dopo circa tre chilometri ci trovammo in un campo circondato da un bel paesaggio, in aperta campagna.  Stentavo a credere al cambiamento rispetto ai luoghi dov’ero stato prima. C’erano dieci baracche di legno, ben costruite, il cortile era un prato verde, e il perimetro chiuso da un’unica rete di filo spinato “Qui ci sarà da divertirsi”, pensai. All’interno c’erano già alcune centinaia di prigionieri alleati. Avevamo la luce elettrica, l’acqua corrente, latrine dove potevi sederti, e un impianto di riscaldamento. I letti a castello erano dotati di materassi di paglia, persino le coperte erano decenti.  Girava voce che fosse stato costruito per la Gioventù hitleriana. Ne aveva tutta l’aria. Gli altri prigionieri mi dissero che il campo si trovava a sud di una cittadina polacca chiamata Oswiecim.  La mattina dopo ci svegliarono alle sei e mezza e ci fecero marciare al di là dei cancelli, attraverso campi e boschi per un paio di chilometri, finché d’un tratto il verde sparì.
Davanti a noi si apriva un enorme cantiere, a perdita d’occhio. Dai camini e dalle gru a vapore salivano volute di fumo.
Dal fango stava sorgendo l’oscuro scheletro in ferro e cemento di una fabbrica infernale. Al di sopra della struttura, sospesa a cavi d’acciaio, era legata una schiera di palloni aerostatici. Entrammo all’interno. Dovunque guardassi, vedevo muoversi lentamente strane figure: centinaia, no, migliaia. Indossavano tutti camicie e pantaloni logori, a righe, più simili a pigiami che ad abiti da lavoro.
I loro volti erano terrei, le teste rozzamente rasate, appena coperte da minuscoli copricapi. Si aggiravano come ombre vaghe e indistinte, parevano destinati a dissolversi nel nulla da un momento all’altro.
Non riuscivo a capire chi, o cosa, fossero. I miei compagni li chiamavano “uomini a righe”.
Mi dissero che in tedesco la cittadina polacca di Oswiecim aveva un altro nome: Auschwitz. Riconobbi quei poveri sventurati come miei simili, malgrado fossero stati privati di quasi ogni traccia di umanità.
Ciò che avevano subìto lo portavano impresso addosso, insieme alla stella di David cucita sulla casacca. Erano ebrei. Fummo divisi in kommando di venti o trenta lavoratori ciascuno, agli ordini di un capocantiere responsabile di un settore, e ci misero all’opera: sterro, trasporto di materiale edile e di grossi tubi da un punto all’altro del campo, installazione di cavi.
Il meccanismo mi fu subito chiaro. Quando bisognava spostare qualcosa di pesante, assegnavano il compito a quei poveretti a righe, che si materializzavano neanche fossero sbucati dalle profondità della terra e sciamavano in massa intorno al tubo, alla valvola o al cavo per riuscire a sollevarlo. Ne servivano tanti perché erano debolissimi. Alcuni camminavano chini sotto il peso di grossi sacchi di cemento, altri spingevano a fatica le carriole. I capicantiere gli stavano addosso, brandendo bastoni o grandi funi annodate, che usavano come brutale incitamento.

Erano i criminali reclutati come kapò, prigionieri a loro volta che tuttavia avevano potere di vita e di morte su tutti gli altri, e non si facevano scrupolo a esercitarlo.
Li odiai a prima vista. Quasi subito assistetti al primo pestaggio, e stentai a credere che la vita in quel luogo valesse così poco. Persino nel deserto alla morte si tributava un minimo di rispetto. Là essa non meritava il prezzo di una pallottola. Per finire gli uomini a righe bastavano anfibi e bastoni.
Da principio ci tennero separati dai prigionieri ebrei. Se uno di loro ci rivolgeva la parola rischiava di essere fucilato, o ammazzato di botte. A sera noi tornavamo al nostro campo quasi decente e loro venivano portati via, Dio solo sa dove.
Quella fabbrica gigantesca veniva costruita per conto di un colosso della chimica, la IG Farben, e doveva servire alla produzione di buna, una gomma sintetica, e di un carburante al metanolo: entrambi materiali destinati allo sforzo bellico di Hitler. Il cantiere si estendeva per più di tre chilometri in lunghezza e per quasi due di profondità. All’interno della recinzione di filo spinato, disposto in una griglia enorme, c’era un numero incalcolabile di singoli bau, o capannoni, il tutto dominato da un gigantesco impianto industriale con quattro altissime camini.

Noi lo chiamavamo Queen Mary, come la nave da crociera con i suoi tre fumaioli. Non dovevamo essere molto forti in aritmetica. Edifici, torri e camini venivano costruiti dappertutto, con impalcature e impianti di scolo su scala ciclopica, e ogni settore era attraversato da un binario a scartamento ridotto, per consegnare quanto serviva a edificare e rendere produttivo il complesso.
Dovunque, in ogni angolo e nicchia di quell’incubo industriale, si vedevano accasciate povere creature nelle loro luride uniformi a righe, troppo deboli per reggersi in piedi, figuriamoci per sollevare e trasportare carichi. Ormai avevo capito che quello non era un normale campo di lavoro. I prigionieri venivano deliberatamente ammazzati di fatica. Era l’inferno in terra. Non ci sono altre parole per definirlo. Niente erba, niente vegetazione da nessuna parte, solo fango d’inverno e polvere d’estate. La natura – per non parlare del suo Grande Architetto – aveva abbandonato a se stesso quel luogo. Per tutto il tempo che rimasi là non vidi mai né una farfalla, né un uccello, né un’ape. Presto fu evidente che le guardie non potevano imporre una separazione rigorosa tra i gruppi di prigionieri. Ciò rallentava i lavori, che andavano portati a termine prima possibile. Così cominciammo a lavorare fianco a fianco con gli ebrei. Da quel momento in poi condividemmo la loro fatica, ma non le frustate e le esecuzioni arbitrarie.

Noi non eravamo destinati allo sterminio, loro sì. Era questa la differenza. Il vento da ovest portava da camini più distanti un odore dolciastro e nauseabondo.
Per qualche giorno lavorai accanto a un poveretto, credo si chiamasse Franz. Avevo cominciato a distinguerlo tra la folla. Poi un giorno non lo vidi più. Approfittai di un momento di distrazione dei kapò e chiesi a uno dei compagni del suo kommando cosa gli fosse capitato.
L’uomo sollevò le mani verso il cielo, e disse: «È passato per il camino». Finalmente compresi. Quelli troppo deboli per lavorare venivano uccisi e bruciati. L’odore che ristagnava nell’aria proveniva dai camini del crematorio poco lontano. Adesso sapevo la verità, ma sentirlo dire non mi bastava.
Durante una marcia di ritorno al cantiere della IG Farben scoppiò un tafferuglio tra alcuni prigionieri inglesi e le guardie della Wehrmacht, o posten, come venivano chiamati. I nostri ragazzi li stuzzicavano con gesti e versi sprezzanti, e io mi ci ritrovai in mezzo. Finì in rissa, e altri posten si intromisero per cercare di riportare la situazione sotto controllo, strattonandoci e prendendoci a spintoni.
Il feldwebel – “sergente” – urlava degli ordini. Era un tizio alto e mi puntò gli occhi addosso appena emersi dalla mischia. Strappò un fucile a un posten, lo impugnò come un bastone, con entrambe le mani, e lo sollevò in aria facendo per colpirmi con tutte le sue forze. Io vidi arrivare il colpo e lo schivai. Ci fu uno schianto, un rumore di ossa fratturate. La bastonata aveva centrato sul lato del cranio uno dei tedeschi alle mie spalle. Stramazzò all’istante, con la faccia sfigurata.
Una randellata in piena tempia con il calcio di un fucile da quattro chili non perdona. Se non era morto sul colpo, comunque non gli restava molto da vivere. Tornammo in fila e ci preparammo alla rappresaglia. Non accadde nulla. Quel feldwebel non lo rividi mai più.

Denis Avey è nato nell’Essex nel 1919, si è arruolato nel 1939 nell’esercito britannico e ha
combattuto nel deserto durante la seconda guerra mondiale. Dopo essere stato catturato, viene
trasferito prima in Italia e poi nel campo di prigionia vicino ad Auschwitz III. Alla fine del conflitto,
riesce tra mille peripezie a tornare nel Regno Unito, dove vive tutt’ora.

 

mercoledì 25 gennaio 2012

Calende 2012

Anche quest'anno San Paolo ha convertito: oggi giornata splendida quindi si realizza. Purtroppo abbiamo avuto della gran nebbia e più che pensare ad un tempo umido non so..Metto le previsioni di quest'anno, prima però volevo segnalare un metodo collaudato dalla nonna di un papà che ha il bambino che frequenta la scuola di mia figlia, Luca. Io faccio sempre tesoro di questi vecchi detti, il credere popolare ha sempre una certa fondatezza, anche se non si può spiegare con logica. La sua nonna, che è mancata a 102 anni (sue testuali parole: "ne avrà ben viste delle calende|", come dargli torto:-)) diceva che i primi dodici giorni dell'anno servivano per stabilire il tempo dei 12 mesi successivi, gli altri 12 lo confermavano. Riporto i due metodi (il  mio e il suo). Qui si trovano le notizie che pubblicai l'anno scorso. Ora non resta che attendere:-)

Avremo quindi:
Gennaio sereno la prima quindicina variabile la seconda
Febbraio con la prima quindicina brutta la seconda bel tempo
Marzo brutta la prima quindicina bella la seconda
Aprile umida la prima e la seconda (nebbia in tutti i due i giorni di riferimento, più brutto la prima)
Maggio brutto tutto il mese
Giugno sereno ventoso la prima metà sereno umido la seconda
Luglio sereno e umido
Agosto sereno
Settembre sereno e umido la seconda
Ottobre Sereno
Novembre Bel tempo
Dicembre Bel tempo

con le previsioni della nonna di Luca:

gennaio: sereno
febbraio: pioggia il secondo non conferma quindi direi così così
marzo: idem
aprile: nuvolo e umido
maggio: brutto
giugno:sereno
luglio: sereno
agosto: sereno con umidità (nebbia c'era ma era sereno)
settembre: non conferma quindi non bellissimo
ottobre: idem
novembre: sereno
dicembre: sereno

Bè non si diversificano molto dalle mie, direi che potete prenotare le vacanze nel periodo migliore:-)


Mucche paraspifferi: spiegazioni

Per realizzare le mucche paraspifferi necissita:
- stoffa maculata o anche bianca, marrone per il viso,  maculata è meglio
- ritagli di stoffa cm 20 x 60/70 cm varia per l'abito
- ritagli di stoffa cm 5/6  lunghezza 20 cm per il collo
- n.2 pezzo di stoffa o pile  di cm 90 altezza 10 per il tubo
- gommapiuma o ritagli di stoffa da riempire il tubo
- bottoni per gli occhi
- ritagli di maglia per gli scaldamuscoli

Ho fatto una sagoma con un disegno di un viso di mucca


ho ritagliato il tessuto maculato in doppio, poi ho ritagliato due triangoli per le orecchie. Ho cucito i pezzi insieme lasciando aperto un foro nella parte sotto per poter imbottire il viso.
poi ho preso la stoffa per il tubo e l'ho cucita insieme avendo anche qui l'accorgimento di lasciare aperto una parte centrale per l'imbottitura

poi ho chiuso i due fori cucendo insieme viso e tubo. Ho proceduto alla preparazione delle zampe rigliando dei pezzetti di stoffa maculata di cm 10 circa per una lunghezza di 20/25 cm e li ho cuciti in modo da poter infilare il tubo.
Ho cucito insieme dei pezzitti di maglia per gli scaldamuscoli

e li ho infillati. Per il viso ho preso due bottoni e cuciti al posto degli occhi, poi con della cipria ho disegnato le gote della mucca.
Con il ritaglio più grande ho ricavato il vestito, orlandolo da tutte e due la parti, poi con un filo in tinta ho passato tipo imbastitura nella parte superiore e tirato in modo da formare l'arricciatura. Altrettanto ho fatto il pezzetto basso del colletto o del pizzo. Nel centro ho cucito un fiocco o un bottone decorativo per nascondere i nodi del cotone.
La mucca è finita! Buon lavoro!

Mucchine nella stalla: ovvero mucche paraspifferi

Quest'anno ho deciso di realizzare (visto anche i tempi duri:)) delle mucchine da regalare ai commensali del pranzo di Natale. Avevo numerosi ritagli di stoffa praticamente inutilizzabili, se non per questi oggetti e li ho messi in opera.  Ho pensato prima a dei paraspifferi, poi visto che eravamo nella stalla quale migliore soggetto di una mucca? Magari non molto natalizi, ma comunque un oggetto invernale.-).
L'unico problema è stato donarle, perchè man mano che le facevo le sentivo mie creature e ho fatto molta fatica a separarmi.-)
Devo anche ringraziare la mia mamma, che me le ha finite, perchè a quasi tre quarti del lavoro la mia macchina da cucire ha deciso di dare forfait.
Ve ne presento alcune:
Natalina

Eugenia